Brexit: ovvero come l'élite britannica non ha mai pensato di uscire dalla UE
di ANDREA FRANCESCHELLI (FSI Abruzzo)
In questi giorni che anticipano il referendum in Gran Bretagna, si fa un gran parlare di Brexit.
Ovviamente anche in questa occasione la nebulosa mediatica ha fatto la sua parte, evitando di raccontare i fatti per quello che sono e alimentando le tifoserie pro e contro, su temi fuorvianti.
Purtroppo mi tocca constatare che, come in occasione del referendum greco dell’anno scorso, vi è una grandissima ignoranza sul tema, che costringe a leggere ed ascoltare parecchie corbellerie.
Le bandiere greche sulle foto profilo dei social network sono state sostituite da quelle inglesi – per la verità intermezzate da quelle francesi – issate dal popolo del “qualcuno all’estero ci salverà”. Beh cari esterofili, vi do una notizia che non vi piacerà: dall’estero non ci salverà nessuno, e non tanto per egoismo, quanto per il fatto che anche in Gran Bretagna esiste una classe dirigente dominante liberista e globalista, per molti aspetti analoga a quella italiana.
Fatta questa doverosa premessa, passiamo ad analizzare il tema del referendum indetto per il 23 giugno in Gran Bretagna, adottando la stessa metodologia sperimentata con successo nell’esaminare la vicenda greca del 2015: basarsi sui documenti ufficiali.
Prima però occorre mettere in evidenza 2 profili.
In primo luogo occorre sottolineare come il ruolo della Gran Bretagna all’interno dell’UE non sia stato mai marginale, come in realtà potrebbe superficialmente apparire. La Gran Bretagna ha scelto di entrare nella UE per avere un ruolo strategico e per indirizzarne dall’interno gli obiettivi.
Il secondo profilo da evidenziare è che proprio la Gran Bretagna, nell’era Thatcher, ha restaurato il globalismo liberista che caratterizzò il periodo d’oro dell’impero Britannico dell’ottocento e dei primi anni del novecento: facendo ciò ha volutamente distrutto la propria industria nazionale, convertito parte della propria forza lavoro al settore terziario e sussidiato ai minimi termini la restante parte, tagliata fuori dal ciclo produttivo. Il “core business” della Gran Bretagna risiede tutto nella “City Londinese” ed il governo britannico, che sia conservatore o progressista, fa gli interessi della sua classe dominante e non certo gli interessi dei sudditi.
Ed è infatti con questo spirito che il primo ministro inglese David Cameron, il 23 gennaio 2013, nella sede della Bloomberg (non a caso, visto che trattasi della più importante multinazionale operativa nel settore dei mass media, specializzata in dati finanziari), tenne un discorso di circa 40 minuti per annunciare la volontà di indire una consultazione popolare sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea (qui il testo).
L’analisi dettagliata di questo discorso svela la ragioni politiche alla base della scelta del governo inglese di indire un referendum.
E’ un discorso che è interessante destrutturare anche per allenarsi all’arte oratoria politica.
Cameron apre con una vecchia e banale risorsa della ormai stantia retorica europeista, ovvero la “pax europea” seguita ai due conflitti mondiali:
“Today, hundreds of millions dwell in freedom, from the Baltic to the Adriatic, from the Western Approaches to the Aegean.
And while we must never take this for granted, the first purpose of the European Union – to secure peace – has been achieved and we should pay tribute to all those in the EU, alongside NATO, who made that happen.”
Subito dopo Cameron ammonisce però che “oggi lo scopo dell’Unione Europea non è vincere la pace, ma garantire la prosperità”. Senza però specificare a chi debba essere garantita la prosperità.
Il primo ministro inglese termina quindi la premessa del suo discorso spalancando le porte all’oltremodo banale idea della inevitabilità della globalizzazione:
“The challenges come not from within this continent but outside it. From the surging economies in the East and South. Of course a growing world economy benefits us all, but we should be in no doubt that a new global race of nations is underway today.
A race for the wealth and jobs of the future.
The map of global influence is changing before our eyes. And these changes are already being felt by the entrepreneur in the Netherlands, the worker in Germany, the family in Britain.”
Preme sottolineare come Cameron individui ed evidenzi 3 categorie soggette al cambiamento globalista: gli IMPRENDITORI OLANDESI, gli OPERAI TEDESCHI, le FAMIGLIE INGLESI. E’ un caso? Assolutamente no. E’ la semplice visione globalista che vuole la sede delle imprese in paradisi fiscali, gli operai concentrati in territori con basso costo della manodopera, le famiglie fuori dal ciclo produttivo, ma sussidiate per lo stretto indispensabile (chiamatelo reddito di cittadinanza se preferite).
Cameron continua il suo discorso introducendo la peculiarità isolata ed isolana della propria gente e il conseguente approccio con l’idea di Unione Europea:
“So I want to speak to you today with urgency and frankness about the European Union and how it must change – both to deliver prosperity and to retain the support of its peoples.
But first, I want to set out the spirit in which I approach these issues.
I know that the United Kingdom is sometimes seen as an argumentative and rather strong-minded member of the family of European nations.
And it’s true that our geography has shaped our psychology.
We have the character of an island nation – independent, forthright, passionate in defence of our sovereignty.
We can no more change this British sensibility than we can drain the English Channel.
And because of this sensibility, we come to the European Union with a frame of mind that is more practical than emotional.”
Segue un intermezzo nel quale il primo ministro britannico spiega i rapporti dell’isola con il continente, legati a doppio filo nello scrivere la propria storia:
For us, the European Union is a means to an end – prosperity, stability, the anchor of freedom and democracy both within Europe and beyond her shores – not an end in itself.
We insistently ask: How? Why? To what end?
But all this doesn’t make us somehow un-European.
The fact is that ours is not just an island story – it is also a continental story.
For all our connections to the rest of the world – of which we are rightly proud – we have always been a European power – and we always will be.
From Caesar’s legions to the Napoleonic Wars. From the Reformation, the Enlightenment and the Industrial Revolution to the defeat of Nazism. We have helped to write European history, and Europe has helped write ours.
Over the years, Britain has made her own, unique contribution to Europe. We have provided a haven to those fleeing tyranny and persecution. And in Europe’s darkest hour, we helped keep the flame of liberty alight. Across the continent, in silent cemeteries, lie the hundreds of thousands of British servicemen who gave their lives for Europe’s freedom.
Mette quindi in evidenza il contributo Britannico al processo di attrazione, all’interno della UE, degli ex paesi del blocco sovietico, verso un modello di Europa con chiara impronta liberista, aperta al libero mercato, al commercio internazionale e pronta a combattere contro ogni forma di protezionismo:
“In more recent decades, we have played our part in tearing down the Iron Curtain and championing the entry into the EU of those countries that lost so many years to Communism. And contained in this history is the crucial point about Britain, our national character, our attitude to Europe.
Britain is characterised not just by its independence but, above all, by its openness.
We have always been a country that reaches out. That turns its face to the world…
That leads the charge in the fight for global trade and against protectionism.
This is Britain today, as it’s always been:Independent, yes – but open, too.
I never want us to pull up the drawbridge and retreat from the world.
I am not a British isolationist.
I don’t just want a better deal for Britain. I want a better deal for Europe too.”
A questo punto il primo ministro inglese passa alla fase centrale del discorso iniziando ad elaborare i motivi che lo porteranno a fare le richieste nei confronti della Unione Europea, in un momento in cui, all’inizio del 2013, il clima di austerità e crisi che si respirava in Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Italia era insopportabile. Senza dubbio il miglior momento per negoziare, da una posizione di favore e forza, migliori condizioni di permanenza:
“So I speak as British Prime Minister with a positive vision for the future of the European Union. A future in which Britain wants, and should want, to play a committed and active part.
Some might then ask: why raise fundamental questions about the future of Europe when Europe is already in the midst of a deep crisis?
Why raise questions about Britain’s role when support in Britain is already so thin.
There are always voices saying “don’t ask the difficult questions.”
Cameron passa quindi ad elencare le tre criticità dell’Unione Europea – le chiama sfide – su cui ritiene obbligatorio operare affinché, a suo avviso, il popolo britannico decida di rimanere nella Unione Europea:
“But it’s essential for Europe – and for Britain – that we do because there are 3 major challenges confronting us today.
First, the problems in the Eurozone are driving fundamental change in Europe.
Second, there is a crisis of European competitiveness, as other nations across the world soar ahead. And third, there is a gap between the EU and its citizens which has grown dramatically in recent years. And which represents a lack of democratic accountability and consent that is – yes – felt particularly acutely in Britain.
If we don’t address these challenges, the danger is that Europe will fail and the British people will drift towards the exit.
I do not want that to happen. I want the European Union to be a success. And I want a relationship between Britain and the EU that keeps us in it.
That is why I am here today: To acknowledge the nature of the challenges we face. To set out how I believe the European Union should respond to them. And to explain what I want to achieve for Britain and its place within the European Union.”
La prima sfida secondo Cameron è rappresentata dal rapporto tra l’Eurozona e i paesi, come la Gran Bretagna, che hanno deciso di non partecipare al progetto della moneta unica. In particolare Cameron richiede “determinate garanzie per assicurare che non sia compromesso l’accesso della Gran Bretagna al mercato unico”, facendo notare in tutta evidenza il suo interesse, appunto, al mantenimento del mercato unico:
“Let me start with the nature of the challenges we face.
First, the Eurozone.
The future shape of Europe is being forged. There are some serious questions that will define the future of the European Union – and the future of every country within it.
The Union is changing to help fix the currency – and that has profound implications for all of us, whether we are in the single currency or not.
Britain is not in the single currency, and we’re not going to be. But we all need the Eurozone to have the right governance and structures to secure a successful currency for the long term.
And those of us outside the Eurozone also need certain safeguards to ensure, for example, that our access to the Single Market is not in any way compromised.
And it’s right we begin to address these issues now.”
In secondo luogo Cameron evidenzia un problema di competitività ed in particolare censura come “fenomeno non naturale la complessità delle norme che limitano i nostri mercati del lavoro”. Aggiunge inoltre che questo problema si sta trascinando da troppo tempo e i suoi progressi sono limitati. Questo è un chiaro monito a perseguire in maniera ancora più efferata l’operazione di demolizione dei diritti dei lavoratori nella UE:
“Second, while there are some countries within the EU which are doing pretty well. Taken as a whole, Europe’s share of world output is projected to fall by almost a third in the next 2 decades. This is the competitiveness challenge – and much of our weakness in meeting it is self-inflicted.
Complex rules restricting our labour markets are not some naturally occurring phenomenon. Just as excessive regulation is not some external plague that’s been visited on our businesses.
These problems have been around too long. And the progress in dealing with them, far too slow.
As Chancellor Merkel has said – if Europe today accounts for just over 7 per cent of the world’s population, produces around 25 per cent of global GDP and has to finance 50 per cent of global social spending, then it’s obvious that it will have to work very hard to maintain its prosperity and way of life.”
Come terzo problema da affrontare, il primo ministro inglese individua il difficile compito dei paesi del cosiddetto “Nord Europa”, tra cui la Gran Bretagna, nel sedare gli animi dei propri cittadini che si vedono, a suo dire, costretti a pagare tasse per sanare bilanci altrui:
“Third, there is a growing frustration that the EU is seen as something that is done to people rather than acting on their behalf. And this is being intensified by the very solutions required to resolve the economic problems.
People are increasingly frustrated that decisions taken further and further away from them mean their living standards are slashed through enforced austerity or their taxes are used to bail out governments on the other side of the continent.
We are starting to see this in the demonstrations on the streets of Athens, Madrid and Rome. We are seeing it in the parliaments of Berlin, Helsinki and the Hague.
And yes, of course, we are seeing this frustration with the EU very dramatically in Britain.”
Ed è a questo punto che Cameron indirizza il discorso verso la sua visione di cambiamento dell’Unione Europea in riferimento ai rapporti con la Gran Bretagna, e lo fa attraverso l’enunciazione di 5 principi, dei quali il primissimo risulta essere l’accrescimento della competitività attraverso il potenziamento del mercato unico:
“So let me set out my vision for a new European Union, fit for the 21st Century.
It is built on 5 principles.
The first: competitiveness. At the core of the European Union must be, as it is now, the single market. Britain is at the heart of that Single Market, and must remain so.
But when the Single Market remains incomplete in services, energy and digital – the very sectors that are the engines of a modern economy – it is only half the success it could be.
It is nonsense that people shopping online in some parts of Europe are unable to access the best deals because of where they live. I want completing the single market to be our driving mission.
I want us to be at the forefront of transformative trade deals with the US, Japan and India as part of the drive towards global free trade. And I want us to be pushing to exempt Europe’s smallest entrepreneurial companies from more EU Directives.”
Ritorna quindi prepotentemente nelle parole di Cameron il “MERCATO UNICO”, che deve essere potenziato ed ampliato anche attraverso gli accordi di libero scambio con Usa, Giappone e India.
Segue una digressione sulla burocrazia da eliminare, tipica del politico liberista, declinata in salsa europea:
“These should be the tasks that get European officials up in the morning – and keep them working late into the night. And so we urgently need to address the sclerotic, ineffective decision making that is holding us back.
That means creating a leaner, less bureaucratic Union, relentlessly focused on helping its member countries to compete.
In a global race, can we really justify the huge number of expensive peripheral European institutions?
Can we justify a Commission that gets ever larger?
Can we carry on with an organisation that has a multi-billion pound budget but not enough focus on controlling spending and shutting down programmes that haven’t worked?
And I would ask: when the competitiveness of the Single Market is so important, why is there an environment council, a transport council, an education council but not a single market council?”
Il secondo principio è la flessibilità intesa in termini di approccio degli Stati membri al processo di integrazione europeo. In questo campo Cameron suggerisce una nuova visione: ”Smettiamo tutti di parlare di Europa a 2 velocità, di corsie preferenziali e corsie lente, di paesi che hanno perso treni e autobus e releghiamo definitivamente in un angolo questa stanca carovana di metafore. Invece, cominciamo da questa proposizione: siamo una famiglia di nazioni democratiche, tutti membri di 1 Unione europea, il cui fondamento essenziale è il mercato unico, piuttosto che la moneta unica. Quelli di noi al di fuori dell’euro riconoscono che in esso c’è probabilmente bisogno di fare alcuni grandi cambiamenti istituzionali.” E promuove una nuova visione nella quale la diversità di vedute in ambito di integrazione non deve essere da freno, né per chi vuole seguire un progetto di integrazione più stretto, né per chi ha il solo interesse a partecipare al mercato unico. In altre parole Cameron non si oppone al progetto germano-centrico che è in atto a livello continentale attraverso la moneta unica, ma ribadisce che l’interesse britannico nella UE sfocia nel ruolo liberista e globalista del mercato unico:
“The second principle should be flexibility.
We need a structure that can accommodate the diversity of its members – North, South, East, West, large, small, old and new. Some of whom are contemplating much closer economic and political integration. And many others, including Britain, who would never embrace that goal.
I accept, of course, that for the single market to function we need a common set of rules and a way of enforcing them. But we also need to be able to respond quickly to the latest developments and trends.
Competitiveness demands flexibility, choice and openness – or Europe will fetch up in a no-man’s land between the rising economies of Asia and market-driven North America.
The EU must be able to act with the speed and flexibility of a network, not the cumbersome rigidity of a bloc.
We must not be weighed down by an insistence on a one size fits all approach which implies that all countries want the same level of integration. The fact is that they don’t and we shouldn’t assert that they do.
Some will claim that this offends a central tenet of the EU’s founding philosophy. I say it merely reflects the reality of the European Union today. 17 members are part of the Eurozone. 10 are not.
26 European countries are members of Schengen – including 4 outside the European Union – Switzerland, Norway, Liechtenstein and Iceland. 2 EU countries – Britain and Ireland – have retained their border controls.
Some members, like Britain and France, are ready, willing and able to take action in Libya or Mali. Others are uncomfortable with the use of military force.
Let’s welcome that diversity, instead of trying to snuff it out.
Let’s stop all this talk of 2-speed Europe, of fast lanes and slow lanes, of countries missing trains and buses, and consign the whole weary caravan of metaphors to a permanent siding.
Instead, let’s start from this proposition: we are a family of democratic nations, all members of 1 European Union, whose essential foundation is the single market rather than the single currency. Those of us outside the euro recognise that those in it are likely to need to make some big institutional changes.
By the same token, the members of the Eurozone should accept that we, and indeed all Member States, will have changes that we need to safeguard our interests and strengthen democratic legitimacy. And we should be able to make these changes too.
Some say this will unravel the principle of the EU – and that you can’t pick and choose on the basis of what your nation needs.
But far from unravelling the EU, this will in fact bind its Members more closely because such flexible, willing cooperation is a much stronger glue than compulsion from the centre.
Let me make a further heretical proposition.
The European Treaty commits the Member States to “lay the foundations of an ever closer union among the peoples of Europe”.
This has been consistently interpreted as applying not to the peoples but rather to the states and institutions compounded by a European Court of Justice that has consistently supported greater centralisation.
We understand and respect the right of others to maintain their commitment to this goal. But for Britain – and perhaps for others – it is not the objective.
And we would be much more comfortable if the Treaty specifically said so freeing those who want to go further, faster, to do so, without being held back by the others.
So to those who say we have no vision for Europe.
I say we have.”
Il terzo principio è incarnato dalla necessità di rivedere gli ambiti di armonizzazione della legislazione comunitaria. Cameron avverte l’esigenza di non omologare standard europei in ambiti che non sono utili alla crescita del mercato unico:
“My third principle is that power must be able to flow back to Member States, not just away from them. This was promised by European Leaders at Laeken a decade ago.
It was put in the Treaty. But the promise has never really been fulfilled. We need to implement this principle properly.
So let us use this moment, as the Dutch Prime Minister has recently suggested, to examine thoroughly what the EU as a whole should do and should stop doing.
In Britain we have already launched our balance of competences review – to give us an informed and objective analysis of where the EU helps and where it hampers.
Let us not be misled by the fallacy that a deep and workable single market requires everything to be harmonised, to hanker after some unattainable and infinitely level playing field.
Countries are different. They make different choices. We cannot harmonise everything. For example, it is neither right nor necessary to claim that the integrity of the single market, or full membership of the European Union requires the working hours of British hospital doctors to be set in Brussels irrespective of the views of British parliamentarians and practitioners.
In the same way we need to examine whether the balance is right in so many areas where the European Union has legislated including on the environment, social affairs and crime.
Nothing should be off the table.”
Il quarto principio spinge ad ottenere la riabilitazione del parlamento nazionale a scapito delle istituzioni europee. Cameron afferma che non esiste un unico demos europeo, e quindi la sede appropriata nella quale i capi di governo devono rispondere della propria responsabilità è il parlamento nazionale:
“My fourth principle is democratic accountability: we need to have a bigger and more significant role for national parliaments.
There is not, in my view, a single European demos.
It is national parliaments, which are, and will remain, the true source of real democratic legitimacy and accountability in the EU.
It is to the Bundestag that Angela Merkel has to answer. It is through the Greek Parliament that Antonis Samaras has to pass his government’s austerity measures.
It is to the British Parliament that I must account on the EU budget negotiations, or on the safeguarding of our place in the single market.
Those are the Parliaments which instil proper respect – even fear – into national leaders.
We need to recognise that in the way the EU does business.”
Il quinto principio è l’equità intesa in termini di equilibrio tra membri della zona euro e paesi in deroga. Equità che “ha portato la Gran Bretagna a promuovere e difendere il mercato unico dalla crisi dell’eurozona, riscrivendo le regole sul coordinamento fiscale e sull’Unione Bancaria Europea”:
“My fifth principle is fairness: whatever new arrangements are enacted for the Eurozone, they must work fairly for those inside it and out.
That will be of particular importance to Britain. As I have said, we will not join the single currency. But there is no overwhelming economic reason why the single currency and the single market should share the same boundary, any more than the single market and Schengen.
Our participation in the single market, and our ability to help set its rules is the principal reason for our membership of the EU.
So it is a vital interest for us to protect the integrity and fairness of the single market for all its members.
And that is why Britain has been so concerned to promote and defend the single market as the Eurozone crisis rewrites the rules on fiscal coordination and banking union.”
A questo punto il discorso di Cameron si incentra sul referendum. Descrive in Gran Bretagna un clima popolare ostile all’Unione Europea che, a suo dire, non sarebbe utile ignorare. Considera indispensabile ricorrere allo strumento referendario, ma con il giusto approccio che prevede “di affrontare il problema, modellandolo e indirizzando il dibattito”. Avverte inoltre che farlo subito (2013) sarebbe un errore, in quanto “l’Europa è in movimento”, con evidente riferimento alla questione della gestione della crisi bancaria sfociata nei provvedimenti dell’Unione Bancaria Europea:
“Today, public disillusionment with the EU is at an all time high. There are several reasons for this.
People feel that the EU is heading in a direction that they never signed up to. They resent the interference in our national life by what they see as unnecessary rules and regulation. And they wonder what the point of it all is.
Put simply, many ask “why can’t we just have what we voted to join – a common market?”
They are angered by some legal judgements made in Europe that impact on life in Britain. Some of this antipathy about Europe in general really relates of course to the European Court of Human Rights, rather than the EU. And Britain is leading European efforts to address this.
There is, indeed, much more that needs to be done on this front. But people also feel that the EU is now heading for a level of political integration that is far outside Britain’s comfort zone.
They see Treaty after Treaty changing the balance between Member States and the EU. And note they were never given a say.
They’ve had referendums promised – but not delivered. They see what has happened to the Euro. And they note that many of our political and business leaders urged Britain to join at the time.
And they haven’t noticed many expressions of contrition.
And they look at the steps the Eurozone is taking and wonder what deeper integration for the Eurozone will mean for a country which is not going to join the Euro.
The result is that democratic consent for the EU in Britain is now wafer thin.
Some people say that to point this out is irresponsible, creates uncertainty for business and puts a question mark over Britain’s place in the European Union.
But the question mark is already there and ignoring it won’t make it go away.
In fact, quite the reverse. Those who refuse to contemplate consulting the British people, would in my view make more likely our eventual exit.
Simply asking the British people to carry on accepting a European settlement over which they have had little choice is a path to ensuring that when the question is finally put – and at some stage it will have to be – it is much more likely that the British people will reject the EU.
That is why I am in favour of a referendum. I believe in confronting this issue – shaping it, leading the debate. Not simply hoping a difficult situation will go away.
Some argue that the solution is therefore to hold a straight in-out referendum now.
I understand the impatience of wanting to make that choice immediately.
But I don’t believe that to make a decision at this moment is the right way forward, either for Britain or for Europe as a whole.
A vote today between the status quo and leaving would be an entirely false choice.
Now – while the EU is in flux, and when we don’t know what the future holds and what sort of EU will emerge from this crisis is not the right time to make such a momentous decision about the future of our country.
It is wrong to ask people whether to stay or go before we have had a chance to put the relationship right.
How can we sensibly answer the question ‘in or out’ without being able to answer the most basic question: ‘what is it exactly that we are choosing to be in or out of?’
The European Union that emerges from the Eurozone crisis is going to be a very different body. It will be transformed perhaps beyond recognition by the measures needed to save the Eurozone.
We need to allow some time for that to happen – and help to shape the future of the European Union, so that when the choice comes it will be a real one.”
Il primo ministro inglese conclude così il suo intervento:
“Una vera scelta tra lasciare o far parte di un nuovo insediamento in cui la Gran Bretagna modella e rispetta le regole del mercato unico, ma è protetta da garanzie eque, e libera da un regolamento spurio che danneggia la competitività dell’Europa.
Una scelta tra lasciare o far parte di un nuovo insediamento in cui la Gran Bretagna è in prima linea nell’azione collettiva su questioni come la politica estera e commerciale e dove lasciamo la porta saldamente aperta a nuovi membri.
Una nuova configurazione soggetta alla legittimità e responsabilità democratica dei parlamenti nazionali degli Stati membri in cui si combinano in cooperazione flessibile, nel rispetto delle differenze nazionali non sempre cercando di eliminarle e in cui abbiamo dimostrato che alcuni poteri possono infatti essere restituiti agli Stati membri.
In altre parole, un assetto che sarebbe del tutto in linea con la missione per un’Unione europea aggiornata come ho descritto oggi. Più flessibile, più adattabile, più aperta – in forma per le sfide dell’epoca moderna.
E a quelli che dicono che un nuovo assetto, non può essere negoziato, direi ascoltare le opinioni degli altri partiti in altri paesi europei argomentando sul potere da far rifluire agli Stati europei.
E guardate anche a ciò che abbiamo già raggiunto. Abbiamo posto termine all’obbligo della Gran Bretagna di bail-out dei membri della zona euro. Abbiamo mantenuto la Gran Bretagna fuori dal fiscal compact. Abbiamo avviato un processo per far tornare alcune competenze relative alla giustizia e agli affari interni. Abbiamo ottenuto protezioni sicure relative all’Unione Bancaria. E la riforma della politica della pesca.
Quindi stiamo iniziando a plasmare le riforme di cui abbiamo bisogno ora. Alcune non richiedono una modifica del trattato.
Ma sono d’accordo anche con quanto il Presidente Barroso e altri hanno detto. Ad un certo punto nei prossimi anni l’UE dovrà concordare modifiche del trattato per apportare le modifiche necessarie per il futuro a lungo termine dell’euro e per consolidare il diverso, competitivo, democratico approccio Europeo che cerchiamo.
Credo che il modo migliore per farlo sarà in un nuovo Trattato. Trattato a cui aggiungerò la mia voce a quelle che stanno già chiamando per questo.
La mia forte preferenza è quella di mettere in atto questi cambiamenti per l’intera UE, non solo per la Gran Bretagna.
Ma se non c’è appetito per un nuovo trattato per tutti noi poi, naturalmente, la Gran Bretagna dovrà essere pronta ad affrontare i cambiamenti di cui abbiamo bisogno in un negoziato con i nostri partner europei.
[Contenuto politico rimosso]
Sarà un rapporto con il mercato unico nel suo cuore.
[Contenuto politico rimosso]
E tempo che il popolo britannico si pronunci. E ‘il momento di risolvere la questione europea nella politica britannica.
Io dico al popolo britannico: questa sarà la vostra decisione.
E quando questo scelta arriverà, sarà una scelta importante che riguarderà il destino del nostro paese.
Capisco l’appello di andare da soli, di tracciare il nostro corso. Ma sarà una decisione che dovremo prendere a mente fredda. I sostenitori di entrambi i lati della questione dovranno evitare di esagerare le loro richieste.
Naturalmente la Gran Bretagna potrà percorrere la sua strada nel mondo, al di fuori dell’UE, se sceglieremo di farlo. Così come potrebbe farlo qualsiasi altro Stato membro.
Ma la domanda che dovremo porci è questa: cosa è meglio per il futuro del nostro paese?
Dovremo valutare attentamente dove si trova il nostro vero interesse nazionale.
Da soli, saremmo liberi di prendere le nostre decisioni, proprio come saremmo liberati del nostro obbligo solenne di difendere i nostri alleati se abbiamo lasciato la NATO. Ma noi non lasciamo la NATO, perché è nel nostro interesse nazionale di rimanere e beneficiare della sua garanzia di difesa collettiva.
Abbiamo più potere e influenza – nell’attuare sanzioni contro l’Iran o la Siria, o la promozione della democrazia in Birmania – se siamo in grado di agire insieme.
Se lasciamo l’Unione europea, non possiamo ovviamente lasciare l’Europa. Rimarrà per molti anni il nostro più grande mercato, e per sempre il nostro quartier genereale. Siamo legati da una complessa rete di impegni giuridici.
Centinaia di migliaia di cittadini britannici ora danno per scontato il loro diritto a lavorare, vivere o andare in pensione in qualsiasi altro paese dell’UE.
Anche se ci tireremo fuori completamente, le decisioni prese nell’UE continuerebbero ad avere un profondo effetto sul nostro paese. Ma avremmo perso tutti i nostri poteri di veto e la nostra voce in tali decisioni.
Avremmo bisogno di soppesare molto attentamente le conseguenze di non essere più all’interno dell’UE e il suo mercato unico, come membro a pieno titolo.
Continuare ad avere accesso al mercato unico è di vitale importanza per le imprese inglesi e posti di lavoro britannici.
Dal 2004, la Gran Bretagna è stata la meta di 1 su 5 di tutti gli investimenti interni verso l’Europa.
Ed essendo parte del mercato unico è stata la chiave di questo successo.
Ci sarà tutto il tempo per testare a fondo tutti gli argomenti a favore e contro nella negoziazione. Ma permettetemi di trattare solo un punto di cui abbiamo molto sentito parlare.
Ci sono alcuni che ci suggeriscono di fare come la Norvegia o la Svizzera – con l’accesso al mercato unico, ma al di fuori dell’UE. Sarebbe davvero nel nostro interesse?
Ammiro quei paesi e sono nostri amici – ma sono molto diversi da noi. La Norvegia si trova seduta sulle più grande riserva di energia Europea, ed ha un fondo sovrano di oltre 500 miliardi di euro. E mentre la Norvegia fa parte del mercato unico – e paga per il principio – non ha voce in capitolo nella definizione sue regole: deve solo attuare le sue direttive.
Gli svizzeri devono negoziare l’accesso al settore del mercato unico per settore per settore. Accettando le norme UE – su cui non hanno alcuna voce in capitolo – o, diversamente, non ottenendo il pieno accesso al mercato unico, anche in settori chiave come i servizi finanziari.
Il fatto è che se si partecipa a un’organizzazione come l’Unione Europea, ci sono delle regole.
Non si otterrà sempre ciò che si vuole. Ma questo non significa che dobbiamo lasciare – non se i benefici di una convivenza sono maggiori.
Dovremmo riflettere attentamente anche sull’impatto sulla nostra influenza al tavolo superiore di affari internazionali. Non vi è dubbio che siamo più potenti a Washington, a Pechino, a Delhi perché siamo un giocatore potente nell’Unione europea.
Quello che conta è il lavoro e la sicurezza britannica.
E ‘importante per la nostra capacità di fare le cose nel mondo. E ‘importante per gli Stati Uniti e altri amici in tutto il mondo, che è il motivo per cui molti ci dicono molto chiaramente che vogliono la Gran Bretagna rimanga nell’UE.
Dobbiamo riflettere molto attentamente prima di prendere una posizione.
Se lasceremo l’Unione Europea, sarà un biglietto di solo andata, senza possibilità di ritorno.
Abbiamo bisogno di tempo per un corretto e ragionato dibattito.
Al termine del dibattito si, il popolo britannico, deciderà.
E dico ai nostri partner europei, frustrati come alcuni di loro sono senza dubbio dall’atteggiamento della Gran Bretagna: lavorate con noi su questo.
Considerate le misure straordinarie, che i membri della zona euro stanno prendendo per tenere insieme l’euro, step che un anno fa sarebbe sembrato impossibile affrontare.
Non mi sembra che i passi che sarebbero necessari per costruire per la Gran Bretagna – e per altri – un rapporto più confortevole all’interno dell’Unione europea, siano intrinsecamente così stravaganti o irragionevoli.
E proprio come credo che la Gran Bretagna dovrebbe desiderare di rimanere nell’UE, allo stesso modo l’UE dovrebbe volere la nostra permanenza.
Una UE senza la Gran Bretagna, senza una della potenze più forti d’Europa, un paese che per molti versi ha inventato il mercato unico, e che porta un peso reale per l’influenza dell’Europa sulla scena mondiale, che rispetta le regole e che è una forza per la riforma economica liberale, sarebbe un tipo molto diverso di Unione europea.
Ed è difficile sostenere che l’UE non vedrebbe diminuire la sua potenza in seguito all’uscita della Gran Bretagna.
Vorrei concludere oggi dicendo questo.
Non mi faccio illusioni circa la portata del compito che ci attende.
So che ci saranno quelli che diranno che la visione che ho delineato sarà impossibile da raggiungere. Che non c’è modo che i nostri partner potranno cooperare. Che il popolo britannico si è posto su un percorso di uscita inevitabile. E che, se non ci troviamo a nostro agio dopo 40 anni che stiamo in UE, non saremo mai a nostro agio.
Ma io mi rifiuto di assumere un atteggiamento così disfattista – sia per la Gran Bretagna e per l’Europa.
Perché credo che con coraggio e convinzione possiamo offrire una Unione europea più flessibile, adattabile e aperta, in cui gli interessi e le ambizioni di tutti i suoi membri possono essere soddisfatte.
Con coraggio e convinzione credo che possiamo raggiungere un nuovo assetto nel quale la Gran Bretagna si senta a suo agio e dove tutti i paesi possano prosperare.
[Contenuto politico rimosso]
Perché credo qualcosa di così profondo. Che l’interesse nazionale britannico è meglio servito in un’Unione euroepa flessibile, adattabile e aperta e che tale Unione europea è migliore con la Gran Bretagna al suo interno.
Nelle prossime settimane, mesi e anni, non mi darò pace fino a quando questo dibattito non sarà vinto. Per il futuro del mio paese. Per il successo dell’Unione europea. E per la prosperità dei nostri popoli per le generazioni a venire.”
Il primo ministro britannico David Cameron, quindi, il 23 gennaio del 2013, oltre tre anni fa, lancia l’idea di un referendum, che altro non è se non un ultimatum ai suoi partner europei, che mira da un lato a sollecitare il completamento del Mercato Unico e dall’altro a porre dei paletti nella comune visione di integrazione europea.
Si dovrà attendere la vittoria di Cameron alle elezioni del 2015 per vedere concretizzate, in una missiva del Governo Britannico al Presidente dell’Unione Europea Tusk (qui la lettera), le proposte di riforma che scongiurino l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
La lettera di Cameron prevede le seguenti aree di negoziato.
- La prima riguarda la governance econonomica: tra paesi dell’area euro e quelli fuori dalla moneta unica non deve esserci alcun tipo di discriminazione, ma i rapporti devono sottostare a determinate garanzie reciproche, elencate analiticamente nella lettera.
- La seconda riguarda la competitività: tagli alla burocrazia, tagli a regolamenti farraginosi ed inutili, potenziamento del mercato unico con particolare riguardo allo sviluppo dei progetti della commissione europea sul mercato unico digitale e sulla Capital Markets Union. Competitività che vede di buon occhio anche il TTIP e il potenziamento del commercio internazionale con Cina, Giappone e il sud est asiatico. Competitività che per dirla con le parole di Cameron usate nella lettera: “L’UE dovrebbe inoltre fare di più per adempiere al suo impegno per la libera circolazione dei capitali, beni e servizi. Il Regno Unito ritiene che dovremmo riunire tutte le diverse proposte, le promesse e gli accordi sul mercato unico, sul commercio e sul taglio alla regolamentazione in un chiaro impegno a lungo termine per aumentare la competitività e la produttività dell’Unione europea.”
Credo che non ci sia una maniera più chiara per dire che alla Gran Bretagna piace tantissimo l’idea del Mercato Unico, e che lo vuole sviluppato all’ennesima potenza nella UE. - La terza area riguarda la Sovranità intesa a tre livelli:
- stop definitivo per la Gran Bretagna al processo di “Unione sempre più stretta”;
- recupero del ruolo dei parlamenti nazionali, su cui Cameron apre uno spiraglio alla negoziazione;
- effettiva applicazione del principio di sussidiarietà.
In aggiunta Cameron richiede di rispettare i protocolli JHA, in materia di giustizia, affari interni e sicurezza.
- La quarta area tematica è l’immigrazione: Cameron, pur riconoscendo come valore le economie aperte alla libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone, pone la questione dell’insostenibilità per la Gran Bretagna dell’attuale flusso immigratorio. Formula quindi delle richieste dettagliate, tra cui alcune volte a:
- riacquisire poteri di controllo e prevenzione sugli ingressi, anche in ragione di repressione degli abusi;
- escludere per un periodo 4 anni i benefici del Welfare britannico agli immigrati;
- escludere temporaneamente dalla libera circolazione delle persone i futuri paesi che parteciperanno all’Unione Europea;
- rivedere l’istituto degli assegni familiari.
Credo che un piccolo commento in calce al capitolo immigrazione vada fatto. Come detto all’inizio di questo articolo, l’era Thatcher ha plasmato in un certo modo il tessuto sociale britannico, rendendo necessaria, per la tenuta del sistema liberista, una rete assistenziale capace di sussidiare gli emarginati del ciclo produttivo. L’operaio inglese è ormai un pezzo d’antiquariato, residuato dagli anni ‘80. Non è quindi di operai che la Gran Bretagna ha bisogno. Gli operai, come chiarito da Cameron nel discorso del 2013, sono in Germania, ed è lì che il flusso immigratorio deve dirigersi per far sì che il costo della manodopera si tenga basso. Da qui il fermo rifiuto della classe dominante inglese al balzello dei sussidi da pagare agli stranieri. Non si facciano quindi troppe illusioni i nostri esterofili sognatori di nuove opportunità oltremanica.
Cameron conclude la lettera sottolineando 2 cose: la prima è che il risultato ottenuto dai negoziati sarà irreversibile e vincolante; la seconda è che, se otterrà i risultati sperati, si batterà anima a e corpo nella campagna elettorale per mantenere la Gran Bretagna nell’Unione Europea.
A questo punto una domanda bisogna farsela: perché colui che nel 2013 ha promosso il referendum per l’eventuale uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea, nel 2015 promette di sostenere il fronte della permanenza nella UE?
Credo che l’essere venuti a conoscenza dei contenuti del discorso del 2013 e della lettera alla UE del novembre 2015, sia sufficiente a sgombrare il campo dai dubbi e faccia capire con molta chiarezza che Cameron non ha mai pensato di uscire dalla UE, ma ha voluto semplicemente sfruttare l’occasione per rafforzare il ruolo della Gran Bretagna all’interno del disegno liberista e globalista incarnato dal processo di unificazione europeo.
Ora passiamo ad un altro capitolo della vicenda: come ha reagito l’Unione Europea (nel suo insieme) alle richieste della Gran Bretagna?
La risposta la ritroviamo in due documenti: nella lettera del presidente Donald Tusk al Consiglio europeo del 7 dicembre 2015 e nelle Conclusioni del Consiglio europeo, 18 e 19 febbraio 2016.
Ebbene, leggendo integralmente (invito calorosamente a farlo) i due documenti sopra citati, si evince la completa accondiscendenza dell’Unione Europea alle richieste della Gran Bretagna.
Faccio altresì notare che il Consiglio Europeo, nel mettere nero su bianco l’accordo con la Gran Bretagna, non ha usato mezzi termini nel definire crudamente quello che è l’Unione Europea. Alcuni passaggi si dovrebbero far leggere ai fanatici degli Stati Uniti d’Europa per cercare di fargli capire quanto i loro sogni europeisti e federalisti siano completamente scollati dalla realtà dei fatti.
L’unione Europea è nata con precise caratteristiche e non le muterà nel corso del tempo: l’Unione Europea è incarnata dal “mercato unico”, punto e basta. Un mercato nel quale i capitali, le merci e i servizi devono circolare liberamente e dove allo stesso tempo le persone intese come fattori produttivi devono circolare nel verso giusto, e cioè recandosi nei paesi che hanno bisogno di tenere basso il costo della manodopera e tenendosi lontani da quei paesi che non ne hanno bisogno e che non hanno intenzione di aumentare il peso dei propri sussidi necessari al mantenimento del proprio regime liberista.
La gran Bretagna fra pochi giorni andrà al voto per decidere se rimanere nella UE alle nuove condizioni già accettate da Bruxelles, oppure uscire definitivamente dall’Unione Europea.
L’idea che mi sono fatto, anche alla luce degli schieramenti politici pro UE che vedono una schiacciante maggioranza estremamente eterogenea, che va dal partito conservatore a quello laburista, è che l’élite Britannica non ha mai pensato di uscire dall’Unione Europea. E non sarà certo uno specchietto per le allodole come il conservatore Nigel Farage a dare agli hooligans della politica la forza per traghettare la Gran Bretagna fuori dalla Unione Europea.
Anche perché, con o senza lo zampino di “James Bond”, l’opinione pubblica è stata ben orientata a seguito dell’omicidio della deputata pro UE Jo Cox.
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